I Borsellino: “La Cavalera”. Una famiglia “dominante” che risale la china attraverso la coesione familiare
Quali erano e quali erano state le famiglie “dominanti” a Cattolica? Quali erano state le famiglie ricche e di conseguenza “di potere” a Cattolica?
Innanzi tutto quella del Principe Fondatore. Certamente. Ma i Principi furono sempre scarsamente presenti a Cattolica. Già a metà del Seicento la Principessa Giovanna Isfar (sposata Del Bosco) aveva abbandonato Cattolica ed addirittura aveva regalato la propria casa baronale ad un convento di suore.
I successori Del Bosco, pur avendo preso l’investitura di Principi della Cattolica, non vi abitarono mai, preferendo Misilmeri dove avevano creato un famoso “orto botanico”. E tanto meno vi abitarono i Bonanno, in cui si erano estinti i Del Bosco.
Dopo il Principe fondatore, certamente la “famiglia dominante” a Cattolica è stata quella dei Borsellino: nel 700 con “Gaspare Seniore” ed almeno fino al 1830 (anno del patatrac della Ricevitoria Generale) con il “Marchese Gaspare” la cui ricchezza era davvero enorme come si desume dalla famosa perizia Adragna che stabilisce il suo “asse patrimoniale” al momento della sua morte. Perizia di circa 300 pagine a stampa che io ho provveduto a fare rilegare in volume.
Non si capisce davvero il motivo per cui il “Marchese Gaspare” abbia voluto impelagarsi in questa vicenda della Ricevitoria Generale che aveva suscitato così tante invidie. Perché essendo così ricco voleva diventare ancora più ricco? Forse era preferibile scialacquare le ricchezze invece che immiserirsi in cause ed affanni!
Altra famiglia importante nel Settecento cattolicese era quella dei Rizzuto che oltre ad essere agricoltori laboriosi ebbero diversi esponenti ecclesiastici e tutti gettarono le basi di una grande ricchezza che fu concentrata in Giov. Rizzuto di cui parleremo.
Poi nel 1819 arriva a Cattolica il Barone Giacomo Spoto e si crea una vera e propria dinastia per la grande ricchezza di questo Barone figlio di una delle sorelle Alfani, ereditiere di Siculiana figlie del famoso notaio Alfani, vecchio amministratore del Principe di Cattolica che lo aveva sostituito in gran parte dei suoi beni. Il Barone Spoto viene a Cattolica e si sposa con Maddalena, una delle tre sorelle Montalto; le altre due sorelle erano andate spose una, Francesca, a Giulio Borsellino figlio del “Marchese Gaspare” e l’altra, Teresa, a Vincenzo Rizzuto, esponente della famiglia emergente di cui ho parlato prima, che tra il 1831 e 1834 era anche stato Sindaco di Cattolica.
Infine c’erano i Montalto. Pietro Montalto e la ricca cognata Domenica La Piana che dotò le sue tre figlie con 5.800 once ciascuna (mentre le figlie del Marchese Gaspare ebbero una dote di 4.000 euro). Non so da dove derivasse la ricchezza dei Montalto che pare siano arrivati a Cattolica solo nel 1816 (fonte Letizia Rizzuto).
Tra metà dell’Ottocento e metà del Novecento nella piccola comunità di Cattolica si affermò una famiglia che surclassò tutte le altre per il prestigio e per la ricchezza e conseguente potenza, provocando invidia e nello stesso tempo, ammirazione per aver superato, grazie alla forte coesione familiare, difficilissime prove contro l’avverso destino.
Questa famiglia fu quella de “La Cavalera”. Un ramo dei Borsellino. “Cavalera”, Femminile di “Il Cavaliere”. Il Cavaliere e capostipite di questa famiglia fu Francesco Borsellino (in famiglia chiamato “Ciccio”) figlio ed erede universale del “Marchese Gaspare”, morto nel 1842 lasciando la famiglia in mezzo ai debiti e piena di guai conseguenti la vicenda della Ricevitoria Generale.
Il Cavalier Francesco muore il 22 giugno 1867 con l’epidemia di colera, lasciando 9 figli dei quali il primogenito, Gasparino, non ha ancora raggiunto la maggiore età. La responsabilità della difesa degli interessi della famiglia passa alla moglie “Pippina”, Giuseppa Giacoma Rizzuto che viene subito chiamata “La Cavalera”; la prima “Cavalera“. E’ lei che si intesta la titolarità di tutte le cause. E’ lei il capo famiglia che difende gli interessi dei suoi figli alcuni dei quali di pochi anni. E’ lei che deve far fronte alle finanze per continuare le cause e per mantenere la famiglia che è proprio in bilico di cascare nel baratro.
Gasparino per prima cosa chiede sostegno allo zio, Marchesino Dima e riceve come risposta la seguente lettera: “ Caro nipote, con la posta ebbi la vostra lettera di risposta alla mia che ricevetti per mano di Vannillo. Sento dalla vostra quanto farete per pratticare per li interessi di casa vostra con diligenza e posatezza per il mantenimento vostro e della famiglia. Con piacere sento che state bene con vostra madre e fratelli e sorelle. La mia salute alquanto buona e spero tornare presto in Girgenti se Dio mi farà questa grazia. Saluto tanto vostra madre, vi benedico con i vostri fratelli e sorelle; vi salutano Maricchia e don Ferdinando e sono vostro zio affezionatissimo Dima
Palermo 16 settembre 1867
Come si vede c’è molta freddezza da parte del Marchesino Dima che non voleva essere trascinato nella causa per la storia della Ricevitoria Generale che aveva causato questo grande terremoto nella famiglia. Lui vuole star tranquillo, specialmente ora che è rimasto vedovo e vive attorniato da Maricchia, serva-padrona, e da Ferdinando, il cocchiere.
Gasparino, si trasferisce subito a Palermo per seguire da vicino l’andamento delle numerose cause. Va ad abitare in Corso Tukory, in casa Perollo, amici fedelissimi di quel ramo dei Borsellino. Soltanto dopo la morte dello zio Marchesino Dima, che ne era usufruttuario, potrà trasferirsi nel palazzetto di famiglia in Via Bandiera dove poi abiterà per tutta la vita.
L’anno successivo, 1868, muore anche il Marchesino Dima (sempre per il colera) e secondo il testamento, erede universale viene designato il nipote Dima (mio nonno materno), che alla morte del padre, 1874, avrà come tutore lo zio (fratello della madre) e cognato (marito di sua sorella Mariannina) Michele Spoto che si occuperà della sua educazione nei migliori collegi del “Continente”. (Fra l’altro al collegio militare dell’Annunziatella a Napoli sarà commilitone del Principe Ereditario futuro Vittorio Emanuele III).
I due partiti che si erano formati con i matrimoni di Francesco e Giovanni ora sono plasticamente visibili nella piccola comunità di Cattolica. Da una parte la Cavalera Giuseppa Giacoma Rizzuto che continua le battaglie intraprese dal marito Francesco, portando avanti le cause seguite da vicino a Palermo dal primogenito Gasparino, appena ventenne, ma sempre ben consigliato dagli amici Perollo. Dall’altra parte Il Marchese che è un bimbetto di 5 anni che viene sempre supportato dal tutore Michele Spoto. Il popolo lo riconosce Marchese perché così aveva deciso il Marchesino Dima di cui è erede. La questione araldica non interessava a nessuno e nessuno fece mai pratiche di riconoscimento formale. Quel che interessava era la sostanza. I beni materiali. Il Feudo. E il feudo era stato assegnato per testamento al nipote mentre per il fidecommisso primogeniale agnatizio previsto nel testamento di “Gaspare Seniore”, il feudo (come pure il titolo di Marchese) toccava a Francesco. Toccava agli eredi di Francesco, alla Cavalera. Altre cause, quindi.
Le due famiglie, La Cavalera ed il Marchese, si affrontano e si contrappongono anche come immagine fisica di localizzazione: il Marchese abitava nella casa di Michele Spoto, suo tutore. In quella stessa casa che poi divenne proprietà della figlia (cioè la zia Pia di cui il nonno Dima divenne tutore). Quindi da una parte il Marchese intrinsecamente intrecciato con gli Spoto e dall’altra parte “La Cavalera” cioè gli eredi del Cavalier Francesco con Giuseppa Giacoma Rizzuto in testa ed i nove orfani che erano rimasti nel Palazzo del Marchese.
Si odiavano questi due rami dei Borsellino e si facevano cause a vicenda per rivendicare l’eredita del Marchese Gaspare e la proprietà del feudo di Giardinelli. Del fatto araldico se ne fregavano. Importava solo “la roba”.
Abbiamo visto con quale coraggio e con quale determinazione il Cavalier Francesco aveva affrontato la difficilissima situazione. Ora continueranno i suoi discendenti fino a raggiungere il pieno successo.
Caratteristica della “Cavalera” era la forte coesione e la tempra. Unità e solidarietà erano sentimenti talmente forti da decidere, con un patto tacito, che soltanto uno dei quattro cavalieri doveva sposarsi per non disperdere il patrimonio familiare con le divisioni. Ed infatti si sposò solo Pepè (il mio nonno paterno). Delle cinque femmine se ne sposarono tre ma non provocarono danno alle finanze della famiglia. Maddalena, la maggiore aveva sposato il medico di famiglia (Dottore Cicala) ma morì presto senza figli e lasciò eredi universali con un testamento perfetto i suoi fratelli, mentre al marito lasciava solo il fondicello della Vitelleria sopra il cimitero con vista su Cattolica. Vannniddra si era sposata con il Barone Spoto nel 1895 quando ormai la “Cavalera” era uscita dal tunnel ed aveva già comprato il feudo di Cuci-Cuci. Mimì poi non solo non fece danni ma apportò linfa alle finanze della famiglia perché si era sposata (già zitellona) con un giovane e ricco (il cosiddetto “zio D’Angelo”) che era morto molto tempo prima di lei che ne aveva ereditato le sostanze (sia pure in usufrutto) che riversò alla propria famiglia.
Chiusa con pieno successo la causa per la Ricevitoria con Gaetani, la “Cavalera” può alzare la testa e non solo riscatta tutti i debiti ma nel 1885, profittando della vendita dei beni della Chiesa confiscati da Garibaldi, compra un nuovo Feudo: Cuci-Cuci di ben 776 ha e oltre 300 gabelloti. Una cosa enorme, strabiliante. Le cause per il feudo di Giardinelli continuano e Gasparino a Palermo è molto efficiente; non è avvocato ma ne sa più degli avvocati ed è consultato da tutto il parentato per le questioni di carattere legale. Ormai la “Cavalera” era uscita fuori dalla tempesta. La forza dei quattro cavalieri era tenuta in grande considerazione ed in breve guadagnarono un grande prestigio non solo a Cattolica ma anche nei paesi limitrofi acquisendo una grande fama di ricchezza e surclassando il Marchese e la sua famiglia. La “Cavalera” era diventata di gran lunga la prima famiglia di Cattolica. La sua forza, la sua potenza e la sua ricchezza era diventata proverbiale.
Dopo aver riscattato il feudo di San Pietro, dopo aver ereditato dalla zia Teresa Rotolo il feudo di Sant’Agata e dopo aver comprato il feudo di Cuci-Cuci, la “Cavalera” ogni anno accresceva la propria ricchezza comprando sempre terre e case. Dagli atti in archivio posso elencare le seguenti acquisizioni anno per anno:
1890 fondo con casa di Sottosaia
1891 ulteriori 10 tumoli a Sant’Agata (dopo l’eredità della zia Teresina)
1892 stanze con zarbata in via collegio cortile Favetta
1893 La Fratta e la Grotta (fondicelli vicino Cattolica)
1895 otto tumoli tumoli al Ponte per pareggiare
1896 terre con case alla Mortilla
1897 Trappeto in via Magenta
1898 Terre di Malacarne
1899 Casette al pizzo
Poi nel 900 ci furono importantissimi acquisti con parte del feudo di Maienza e con le terre di Amagione.
Ovviamente questo non è l’elenco completo, ma lo riporto per dare una idea di come era cambiato il vento rispetto a qualche decennio prima quando il povero Cavalier Francesco doveva avere a che fare con gli usurai.
Bravi i cavalieri.
Grazie, cavalieri.
Quando ero ragazzo e tornavo a Cattolica per le vacanze quando mi chiedevano a chi “appartenevo” ed io rispondevo “La Cavalera”, sentivo immediatamente in chi me lo chiedeva un sentimento che era un misto di ammirazione e di timore reverenziale. Il mio interlocutore poteva finalmente vedere direttamente questo “mito” che era stato creato attorno a questo nome: “La Cavalera”.
Purtroppo però, l’avverso destino colpisce ancora e mio nonno (paterno) Pepè muore per la malaria mentre precedentemente erano morti in giovane età anche i suoi fratelli. Rimane la moglie, Marietta Spoto, vedova dopo appena dodici anni di matrimonio, con due figli il cui maggiore è mio padre di undici anni. Ancora una volta bisogna difendere il patrimonio dalle insidie esterne anche se ormai la Cavalera era diventata una entità economica imponente nella Cattolica di fine ottocento. Forse però anche per questo le insidie erano maggiori. Marietta è inesperta negli affari, non è neanche molto istruita e sa a malapena scrivere una lettera. La sua corrispondenza è piena di errori di ortografia. E’ una delle numerose figlie dell’ultimo Barone Spoto che non si è molto preoccupato dell’educazione dei figli. Ha però il senso degli affari. Conosce perfettamente gli intrighi familiari e si dedica con l’aiuto di suo fratello (l’ultimo Barone Spoto) alla causa per il riscatto del Feudo. Tira fuori le unghia e si comporta molto bene diventando la seconda cavalera, forse ancora più agguerrita della prima che aveva un figlio (Gasparino) molto efficiente. Si deve arrivare al 1922 quando mio padre, dopo circa 80 anni può mettere una pietra sopra a questa causa infinita, riscattando per intero il Feudo di Giardinelli di Cammarata, indennizzando una lunga serie di parenti di cui era pure difficile risalire al nome (discendenti dei due rami cadetti di Giulio e Giuseppe)
La terza “Cavalera” fu mia madre anche se tutti l’hanno sempre comunemente chiamato Marchesa perché figlia maggiore del Marchese Dima. Anche lei è rimasta vedova dopo meno di 15 anni di matrimonio per l’incredibile, immatura morte di mio padre che ha lasciato tre orfani (io avevo appena sei anni). Tra le tre “Cavalere” mia madre è quella che ha avuto il maggior prestigio. Era molto amata a Cattolica ed al suo funerale i negozianti abbassavano le saracinesche quando passava il feretro. E’ stata una donna molto popolare per la sua generosità (nel dopoguerra si era prodigata per aiutare la popolazione), sempre pronta a venire incontro ai bisogni degli altri. Soprattutto se veniva paragonata alla seconda Cavalera la sua figura giganteggiava: mia nonna infatti era tirchia, perseguitava i contadini ed aveva sempre un atteggiamento arcigno. Mia madre era di manica larga; i suoi fratelli e suo cognato ne profittavano e non facevano mai i conti ed anche qualche campiere rubacchiava. Lei lasciava correre e diceva “finché la barca va…” e la barca andava, noi tre fratelli crescevamo bene e certamente non c’è mai mancato nulla ed abbiamo avuto anche il superfluo.
Poi però, attorno agli anni cinquanta, quando eravamo ancora minorenni, avvenne un fatto eclatante per cui c’era bisogno di qualcuno che mostrasse grinta e determinazione per parare una grave insidia che colpiva la nostra famiglia. In quell’occasione mia madre dimostrò di essere la terza Cavalera all’altezza della situazione non demordendo mai fino alla soluzione del problema che avvenne dopo anni di angosce e preoccupazioni.
Era successo che l’ERAS (L’ente per la riforma agraria) aveva commesso un grave errore materiale in base al quale l’Assessore all’Agricoltura della Regione Siciliana aveva emesso un Decreto di esproprio a nome di mio zio (fratello di mio padre) di terreni di nostra proprietà. Mio zio diceva che andava bene così e che ci avrebbe indennizzato. Mia madre non volle sentire ragioni di sorta e pretese che l’errore venisse corretto. Per far questo fu necessario fare una lunga causa presso la Corte di Giustizia Amministrativa.
Ancora cause tra parenti. Incredibile. Purtroppo queste cause tra parenti ancora oggi sono di moda nella nostra famiglia se si pensa che è da poco che abbiamo concluso con i miei cugini una causa per la divisione del palazzetto di Via Bandiera.
Ho un ricordo preciso delle peregrinazioni di mia madre tra gli uffici dell’Eras, dell’Assessorato, studi di avvocati, segreterie di parlamentari etc. Io avevo forse 13 o 14 anni e mia madre voleva che l’accompagnassi sempre e sempre mostrava all’interlocutore il ragazzino che subiva il sopruso dell’esproprio per conto dello zio….
Ecco le tre “Cavalera”: Giuseppa Giacoma Rizzuto, Marietta Spoto e Giovanna Borsellino. Tutte e tre vedove con figli minorenni, tutte e tre hanno saputo difendere con accanimento il patrimonio familiare dalle insidie esterne, ritirandosi in buon ordine quando i figli potevano con ragione prendere in mano le redini degli affari. Anzi quasi adagiandosi su di loro
Queste donne furono considerate “Fimminune” e vennero guardate con rispetto ed ammirazione anche dagli estranei.
“Fimminuna” significa, traducendo letteralmente, “grande donna” e corrisponde a quella donna che si trova a dover fronteggiare da sola e per molti anni una situazione di grande difficoltà a causa della perdita del marito. Tutti (anche, ma forse soprattutto, i parenti più stretti) cercano di profittare dell’occasione e cercano di usurpare, rubare, arraffare, sgraffignare etc. e rimane solo la “fimminuna” a fare da argine a queste pretese fameliche per difendere la famiglia e salvaguardare i figli che ancora sono troppo piccoli per capire e per difendersi.
Le “Fimminune” hanno rivestito il ruolo di capo famiglia e, anche se non ne avevano la vocazione, hanno fatto di necessità virtù come le tre regine di Francia che, in meno di un secolo, furono trasformate da regine senza alcun potere in reggenti: Caterina de’ Medici, Maria de’ Medici ed Anna d’Austria dovettero difendere con le unghia e con i denti il trono dei loro giovani figli.
Le mie tre “ fimminuna”, rimaste vedove ancora giovani avrebbero potuto facilmente “rifarsi una vita”, risposandosi. Invece fecero come Caterina dei Medici si vestirono di nero e non se lo tolsero più per tutta la vita (almeno Caterina, come si vede in tutti i ritratti, aveva sempre un colletto bianco che spezzava il nero).
L’attuale benessere della mia famiglia deriva da queste tre “fimminuna” che dalla mattina alla sera si occuparono della difesa del patrimonio dei loro figli.
Se confronto lo stile di vita delle tre “Cavalera” con quello delle nuove generazioni ( i miei figli e nipoti) mi rendo conto come tutto è profondamente cambiato. Anche se hanno senso del dovere nell’affrontare la vita, basandosi sulla propria indipendenza economica derivante dal proprio lavoro, permane in loro una propensione vacanziera e non pensano altro che alle feste ed ai divertimenti. La parola “divertimento” era ignorata dalle tre “Cavaliere”. Non so se bisogna pensare a loro come a persone noiose che non sanno divertirsi. Non so. Per me sono tre eroine.
Oggi a Cattolica la “Cavalera” non esiste più se non nel ricordo degli anziani. Anche il Marchese non esiste più perché mio zio si è trasferito a Sciacca e mio fratello si è trasferito ad Agrigento (quando non vive in Francia) ed a Cattolica hanno liquidato tutto e vedo che non tornano neanche da morti. Esiste solo Gasparuccio, ultimo discendente di Gaspare Seniore e del Marchese Gaspare, che ha unificato i due rami dei Borsellino (“Cavalera e Marchese) ed ha unificato e restaurato anche il Palazzo in Piazza Grande costruito da Gaspare Seniore nel 1774. Gasparuccio, come mi chiamava soltanto mia madre che era molto popolare ed ora la popolazione, in suo onore, mi conosce solo come Gasparuccio. Va bene così. Niente più Cavaliere e niente più Marchese.
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