“Pupiddri di zuccaru e frutta marturana”, una bella tradizione per il primo novembre
1 novembre: Festa di Ognissanti.
Con un vassoietto noi bambini andavamo di casa in casa per ricevere in dono qualcosa di gradimento per la nostra gola: “pupiddri di zuccaru, frutta marturana, castagne, cioccolatini e quant’altro”. Il tutto ci veniva offerto dalla generosità di uno dei nostri cari defunti conosciuti in vita e non. Questo per creare e rinsaldare un legame con il caro assente. “Lu ziu Carmelu ti manna nda lu cielu chistu viscottu”, “to matri ti manna sti pupiddri di zuccaru”. Tutto un rituale che si protraeva per due giorni consecutivi fino all’indomani, giorno dei nostri morti.
Usanza e tradizione che servivano a mantenere saldo il vincolo di parentela e il ricordo dei giorni trascorsi con noi sulla terra. Io ero uno di quei bambini che andava in giro per case di parenti e di conoscenti che mi aiutavano a ricordare la mia mamma, i miei nonni, i miei zii e, perché no?, anche vicini di casa che mi hanno lasciato bei ricordi. Ma, com’era bello!
Una bella tradizione che era di divertimento per noi bambini e, nel contempo, di ricordo della persona amata che ci era venuta a mancare. Due giornate veramente commoventi e colme di tanti ricordi. “Non sono stato privato dei miei rapporti con te, ma li ho cambiati: prima non ti separavi da me con la tua persona, ora sei da me inseparabile per un vincolo d’affetto; rimani con me e vi rimarrai sempre”. Così afferma sant’Ambrogio, Vescovo di Milano, in occasione della morte del fratello Satiro.
2 novembre.
Giornata dedicata alla commemorazione dei defunti. Nata per i nostri cari. Che sono la nostra storia, le nostre tradizioni: la visita alle tombe dei nostri cari. I nostri cari defunti, i nostri maestri di vita. I nostri sostenitori e protettori sin dal primo vagito, senza mai stancarsi. Una vita a noi sempre dedicata con amore e dedizione, dettati dallo spirito materno e paterno. E i nostri nonni? Dove li mettiamo i nostri nonni? I nostri zii? Tutti quelli che ci sono stati vicini durante la nostra crescita, durante il cammino della nostra esistenza?
Il 2 novembre rappresenta la vittoria sulla morte, ma anche sulla separazione e la solitudine. Visitare le tombe dei nostri cari è vivere la fede in questa comunione più forte della morte.
Ebbene. Oggi, purtroppo, le nuove generazioni, le nuove leve di ragazzi e di giovani dimostrano di essere meno “osservanti” di quelle “regole” che noi di un’altra “epoca”, noi dei lontani anni Quaranta, Cinquanta, Sessanta e tanti altri ancora, rispettavamo; “regole” che da noi erano state assolutamente interiorizzate, perché tramandate e inculcate nei nostri animi dall’immensa saggezza dei nostri genitori, dei nostri nonni, dei nostri zii e di tante altre persone (amici, conoscenti, vicini di casa).
Oggi siamo imbottiti, condizionati, “farciti” da esotiche mode che nulla hanno a che vedere e a che fare con la nostra cultura decisamente ricca di storia e di tradizioni che, ancora oggi, rendono ricca e policromatica la nostra esistenza. Tradizioni, storia e cultura che, fino ad oggi, sono state alla base dell’esistenza della nostra società italiana. Sono valori che non possono essere cancellati dagli anni, dal tempo. I valori rimangono tali pur col passare dei secoli.
Ma, veniamo a noi, a quella che era una volta la commemorazione dei defunti. Ho vissuto perennemente nel mio paese per trentadue anni circa. Ricordo “il giorno dei morti” molto bene in tutti i suoi momenti più significativi. Da bambino il giorno di Ognissanti (tutti i Santi, il 1° novembre), con tutta la mia famiglia si andava a piedi (allora non tutti si possedeva l’automobile) al cimitero, muniti di scopa, straccio e secchio: quanto serviva per pulire la tomba e presentarla l’indomani ordinata. Il giorno dopo, i componenti la famiglia, chi portava il mazzo di fiori, chi i lumini, nel silenzio più rispettoso verso i nostri cari, si recavano al camposanto a dire le preghiere per i propri cari.
E non si andava solo al mattino. Verso mezzogiorno aspettavamo che il sacerdote passasse per benedire le tombe. Dopo di che si faceva ritorno a casa. Il tempo necessario per il pranzo e poi di nuovo, come in processione, verso il cimitero a “fare compagnia” ai nostri morti. E lì si rimaneva fino a quando il custode del cimitero non ci dava il segnale della chiusura del cancello. Era un giorno di preghiera (se non due giorni con il 1° novembre).
Quanti lamenti, quanti pianti che rievocavano il padre, la madre, il figlio, la sorella, le persone tanto care! Quante lacrime, e quante preghiere! Quanti colloqui, bagnati di dolore (ma che dolore!), col proprio figliolo, la sorella, i cari assenti che ci avevano lasciati! Fiori e lumini che simboleggiavano il profumo del nostro amore per i defunti e l’illuminazione della via verso la salvezza della loro anima, al fine di acquistare e conquistare la pace e il riposo eterni del regno celeste.
Oggi, purtroppo, in una giornata così importante, così interessante per il suo valore decisamente spirituale, i giovani non pensano ad altro che ad halloween, una buffa americanata, che serve a mettere in ombra il profondo significato della visita alle tombe e a sminuire l’essenzialità della commemorazione dei nostri cari assenti.
Penso, anzi, credo che consumismo e materialismo stiano alla base di tutto questo degrado umano e sociale. Dov’è la famiglia di allora? Dove sono i momenti d’incontro tra figli e genitori? Incontri così sfuggenti che non permettono ai giovani di attingere all’esperienza, alla storia, al passato dei genitori!
Oggi, e concludo, stiamo vivendo una realtà priva di contenuti logici e di sentimenti puri, una realtà sguarnita di principi e di valori da tramandare ai nostri figli, con pieno orgoglio, senza tema che essi (principi e valori) possano miseramente naufragare nel tempo. Questo penso e questo dico circa la sola e unica giornata dedicata ai defunti. Almeno una volta l’anno. Nostalgia? Ma di che? Sicuramente di quelle tradizioni e di quei valori messi a tacere da culture “carnascialesche”.
Francesco Mulè
La festa dei morti
Una sera, prima di cadere nel sonno profondo che caratterizza tutti i bambini, avvertii un trambusto insolito.
Allora mi alzai e, quatto quatto, mi recai verso l’origine del movimento e del bisbiglio. Scorsi i nonni e i genitori che armeggiavano con fagottini e dolcini. Non impiegai molto a capire che stavano per arrivare i morti.
Era da giorni che se ne parlava a casa perché, per noi di Naro, il giorno dei morti era un giorno di festa.
I grandi dicevano che i morti, ogni anno, tornavano ad abitare nella case dove avevano vissuto per avere compagnia; per essere graditi portavano a tutti i bambini cose buone da mangiare ed anche i giocattoli tanto desiderati. E non mi sembrava l’ora che arrivasse quel giorno, anche perché ricordavo che l’anno precedente avevo ricevuto due giocattoli e dolcini a volontà.
Altro non mi interessava.
Avevo fatto appena caso alle stranezze che facevano i grandi, che si recavano al cimitero e cunzavanu (cioè pulivano e addobbavano) le tombe con fiori e piantine. Poi stavano lì ad aspettarsi, a salutarsi, ad ossequiarsi, a parlare ed a meravigliarsi della dipartita di quel conoscente o di un tal lontano parente.
Il cimitero era pieno, affollato, ma non vi era tristezza in giro; il giorno dei morti, era pur sempre una festa, una festa vissuta con contegno e serietà. Io correvo da casa al cimitero, percorrendo il chilometro di distanza in tempo da record. Non dovevo mostrare a tutti i parenti i regali che mi avevano portato i morti? Quell’anno, poi, che avevo ricevuto una colt da cow boy, con il relativo fodero e cinturone, e una scatola intera di munizioni di quelle innocue che facevano solo il botto, ero a dir poco felice.
Oggi rivivo con nostalgia quell’andirivieni e se prima ero troppo piccolo per capire quel che mi accadeva intorno, oggi ne colgo tutto il sapore intellettivo, tutto il significato spirituale.
I grandi mi iniziarono così al culto dei morti, con i doni; doni che i parenti facivanu attruvari per conto e a nome dei defunti, affinché di loro serbassi un ricordo benigno e affettuoso. I miei familiari volevano insegnarmi che i nostri morti, in realtà, non erano morti, erano vivi, erano angeli protettori della nostra famiglia, dei luoghi in cui avevano vissuto, delle attività che si svolgevano, dei nuovi lavori che si intraprendevano.
E noi, bambini di Naro, eravamo chiamati a partecipare a quella ricorrenza nel modo più bello e desiderato dai fanciulli, con il gioco. Poi, con l’età avremmo capito tutto il resto. Avremmo capito che la morte era una fase della vita, un passo obbligato a cui nessuno poteva sottrarsi, e che per questo non doveva essere temuta: c’erano i vivi che avrebbero fatto rivivere gli scomparsi ricordando i loro meriti e le loro gesta.
Ci penso e m’intristisco.
Io non ho potuto trasmettere ai miei figli gli antichi insegnamenti, intanto perché i miei parenti più cari, papà e mamma, sono per fortuna ancora viventi e poi perché non condivido più la spettacolarizzazione di tale ricorrenza.
Oggi tutto si è tramutato in business, in speculazione commerciale. I fiori, i giocattoli, i dolcini sono un obbligo imposto dalla società dei consumi: c’è sempre qualcuno pronto a trafficare sui sentimenti del prossimo e ciò mi dà tanto fastidio.
Ma ugualmente mi sento pervaso da un senso di disagio e di vergogna, chè non sono andato più ad onorare come meritano i miei parenti, e soprattutto il nonno, il più amato di tutti, ed anche gli altri nonni, i miei zii.
Poi, però, penso che l’amore e l’affetto per le persone care si deve sentir dentro, nel profondo dell’animo, sempre, e non solo nel giorno dedicato ai morti. È con questa convinzione che supero l’imbarazzo del mio stato d’animo: me la suggerisce la saggezza del nonno che è sempre viva e presente in me.
tratto dal romanzo “L’ultimo contadino” di Calogero Catania