Gasparuccio: In treno con Leonardo Sciascia
Curiosando nell’archivio del Palazzo Borsellino ho ritrovato un ricordo che non poteva restare chiuso in un cassetto.
È un testo scritto oltre 15 anni fa da Gasparuccio Borsellino, dedicato a Leonardo Sciascia. Non un racconto di seconda mano, ma la testimonianza di chi lo ha conosciuto davvero, di chi lo ha ascoltato e accolto più volte nella propria casa.
Un documento prezioso, che racconta non solo l’uomo di lettere, ma anche l’amicizia e la vicinanza che legavano Sciascia a chi lo ha frequentato davvero.
Domenico Oliveri
La Sicilia è un’isola.
Quando ero al Liceo a Palermo, il pomeriggio ad una cert’ora ci radunavamo, sempre i soliti quattro o cinque, ed andavamo in giro a bighellonare.
A volte andavamo al porto alla partenza del “postale” e ci confondevamo tra la folla degli “accompagnatori”. Che strana usanza allora quella dei palermitani: accompagnavano alla nave, in grandi comitive, amici e parenti che partivano e quando poi la nave cominciava a staccarsi dal molo, anche gli accompagnatori continuavano a camminare sulla banchina per essere più vicini, salutare, parlare, vociare, sventolare fazzoletti…. Pare che una volta qualcuno sia caduto in acqua. Questo però forse non è vero. Comunque era bello vedere la nave che si allontanava nel mare e lasciava l’isola. Invidiavamo i fortunati che potevano partire e raggiungere il “continente”.
Più spesso andavamo alla stazione. Era ancora presto per la partenza della mitica Freccia del Sud ma il treno era già formato. Noi salivamo, ci sedevamo in una vettura di prima classe con i divani di velluto rosso ed iniziavamo a fantasticare. Dicevamo: “Noi un giorno partiremo e lasceremo quest’isola. Forse partiremo con questo treno, forse con il postale, forse in aereo ma certamente ce ne andremo”. Ed ognuno di noi immaginava dove sarebbe andato, cosa avrebbe fatto, quali studi avrebbe intrapreso, quali meravigliose donne avrebbe incontrato… E così continuavamo a sognare la nuova vita che ci avrebbe atteso fino a quando non cominciavano a salire i viaggiatori reali e noi lestamente scendevamo dal treno avviandoci verso casa, continuando a parlare delle nostre fantasie ma questa volta sfottendoci a vicenda: “Tu resterai sempre qui inchiodato…”, “tu verrai ad accompagnarmi al porto e verrai a salutarmi quando io partirò…”, “tu sei un coglioncione che non riuscirà mai a staccarsi dalla famiglia…” e così via.
In effetti, passata la maturità partimmo tutti. Il primo andò a Roma. Tornava nelle vacanze, ci raccontava mirabilie nel suo appartamentino affittato con amici e noi sbavavamo. Un altro si trasferì con la famiglia in una villa di campagna tra Pisa e Livorno. Poi un altro ancora andò a Parigi. Mia madre, risoluta, disse subito: “Parigi no, Parigi mai” (la motivazione per questo fermo diniego era abbastanza curiosa: “A Parigi c’è la sifilide!!!”). Così io dovetti ripiegare su Firenze. Partimmo tutti quindi, ma tornavamo periodicamente per le nostre radici….Io in particolare non tornai più a vivere a Palermo perché preferivo andare direttamente in campagna nell’agrigentino dove la mia famiglia era impegnata con le “terre”.
Molti anni dopo, quando ormai ero solidamente radicato a Roma con un lavoro impegnativo e stimolante, a mia madre fu diagnosticata, con prove inequivocabili, una forma di leucemia assai grave. I medici erano tutti concordi nel ritenere che presto sarebbe morta.
Decisi quindi di andare a passare l’ultimo Natale con mia madre in Sicilia. Mia moglie ed i miei figli sarebbero andati a Firenze in casa dei miei suoceri e dopo Natale io li avrei raggiunti per proseguire per le Dolomiti dove ci saremmo fermati fino alla fine delle vacanze.
Mia madre non morì. Morì, molti anni dopo, ultranovantenne e per tutt’altra causa. Nelle persone anziane infatti le cellule non si riproducono così rapidamente. Ma io questo allora non lo sapevo e per altri cinque o sei anni continuai ad andare in Sicilia per passare “l’ultimo Natale” con la mamma mentre la mia famiglia tornava sempre a Firenze ove ormai gli amici, non vedendomi mai soprattutto per le feste, si erano convinti che ci eravamo separati e rispondevano con sorrisetti di sufficienza alle giustificazioni di mia moglie.
Andavo in Sicilia in treno. Mi è sempre piaciuto viaggiare di notte, cullato dal rumore delle rotaie e talvolta, alle fermate, svegliarmi ed ascoltare il rumore delle stazioni. Meglio se pioveva o tirava vento: apprezzavo ancor di più il piacere di stare rannicchiato sotto le coperte mentre il treno correva veloce. A quell’epoca c’erano ancora le vecchie carrozze anteguerra, comode e spaziose, della compagnia dei Vagons lit con il riscaldamento con l’acqua che scorreva nei termosifoni ed in fondo alla carrozza la caldaia che doveva essere ben alimentata a carbone durante la notte.
Credo fosse uno degli ultimi viaggi per andare a passare il Natale con mia madre quello che ora vorrei ricordare come un “viaggio memorabile”. Quella volta, preso possesso del mio scompartimento mi sono subito accorto che quello accanto era occupato da Leonardo Sciascia che stava nel corridoio appoggiato alla finestra e fumava.
Sciascia ha sempre rappresentato per me un mito. Ho conosciuto, soprattutto negli anni dell’Università a Firenze, uomini straordinari molti dei quali hanno lasciato un’impronta nella mia vita. Alcuni, come Adriano Olivetti, li ho conosciuti di persona; altri, come Andrè Malraux, solo letterariamente. Di Sciascia sapevo tutto, avevo letto tutto. Era diventato insieme a Pasolini il mio “maitre à penser”. Ancora oggi questi due personaggi mi mancano. Mi manca la loro indignazione civile per il nostro attuale decadimento del costume. Spesso mi chiedo per esempio quale sarebbe stato la loro forte reazione di fronte agli sconvolgimenti di questi ultimi anni nella società italiana; intendo il “berlusconismo” e l’assuefazione alla mancanza di legalità.
Trovandomi quindi con Sciascia nello scompartimento accanto, si può immaginare quanto fossi emozionato. Dovevo assolutamente profittare di questa opportunità. Ma come fare a rompere il ghiaccio senza importunarlo? Stavo seduto nel mio scompartimento per studiare una strategia per avvicinarlo. Capivo che un approccio maldestro e sgraziato avrebbe rovinato tutto. Decisi allora di affrontarlo senza tanti giri di parole in modo naturale. Intanto il treno era partito e fuori era già buio. Mi alzai risoluto, mi affacciai al corridoio, lui stava sempre lì contro il vetro, feci i pochi metri che ci separavano ma non ebbi il coraggio di fermarmi e dissi “permesso”, proseguendo verso il bagno. Al ritorno non ci fu neanche bisogno di dire nulla perché lui si scansò e mi lasciò passare. Decisi allora un approccio un po’ melenso ma che poteva essere efficace: mi avvicinai con la sigaretta in bocca e gli chiesi se poteva farmi accendere. Tirò fuori dalla tasca la sua bustina di minerva e vedevo che mi guardava con curiosità mentre mi porgeva il fuoco. Ringraziai e tornai davanti la mia porta, restando nel corridoio. Fumavo ed ogni tanto lo guardavo di sottecchi. Dovevo apparire manifestamente turbato ed impacciato perché ad un certo punto fu lui che mi si avvicinò e mi disse: “Lei ha qualcosa da dirmi?”. Divenni rosso come un peperone. La mia timidezza o meglio il mio ritegno nel non volere infastidire erano spariti. Risposi subito: “Sì, molte cose” e Lui: “Allora si accomodi” e mi fece cenno si sedermi sul divano del suo scompartimento.
Erano credo le otto di sera e restammo a parlare fino a quasi mezzanotte! A quell’epoca anch’io ero un grande fumatore, parlavamo e fumavamo. Poi ci siamo trasferiti nel mio scompartimento per aprire la finestra e far cambiare l’aria nel suo. Avevamo cominciato a fumare anche nel mio scompartimento ed alla fine lui disse: “Ora facciamo arieggiare il suo, venga nel mio che è ben fresco, ma non fumiamo più”.
Cosa abbiamo detto in quasi quattro ore? O meglio io (notoriamente Sciascia era di poche parole) cosa ho potuto dire in tutto questo tempo? E’ quello che ogni tanto mi chiedo. Credo che sia stato per me una confessione psicanalitica.
Abbiamo certamente parlato della Sicilia che è un’isola, della tendenza che ho sempre avuto fin dall’adolescenza ad evadere: Se uno è nato a Torino o a Milano non ha la pulsione a lasciare la propria terra per andare a vivere in un’altra regione. Perché per un siciliano è diverso? Ma attenzione, il siciliano è condannato alle proprie radici e se non torna porta sempre con sé il proprio fardello. “Unni va Maria si porta la so dulia” recita un vecchio adagio del mio paese. Anche Lampedusa diceva che lasciare la Sicilia a vent’anni è già tardi perché la “crosta” si è già formata. Ed è proprio vero.
Abbiamo certamente parlato della “sicilitudine”, quel miscuglio cioè di orgoglio, di masochismo, di brio, di nevrosi e di follia che fa il carattere del siciliano ed io avrò certamente parlato dei personaggi eccentrici di Cattolica Eraclea che potrebbero popolare “la corda pazza” di Sciascia.
Avrò certamente detto (citando proprio Sciascia) che Cattolica Eraclea per me è la metafora, come il villaggio di Tolstoj quando diceva “descrivi bene il tuo villaggio avrai descritto il mondo”.
Sciascia in quel periodo era ad una svolta della sua attività letteraria ed era in procinto di trasferirsi per gran parte dell’anno a Parigi per seguire le sue ricerche sull’illuminismo. Invece quel diavolo di Pannella con un colpo di teatro l’aveva convinto ad accettare la candidatura alla Camera nei tre principali collegi radicali. Sciascia (anche con un po’ di vanità) aveva accettato perché era intellettualmente molto interessato a seguire la commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Moro. Ed ora che era stato trionfalmente eletto veniva periodicamente a Roma ove si occupava con molta diligenza dell’Affaire Moro.
Viaggiava sempre in treno e me ne esaltava i vantaggi. Soprattutto aveva bisogno di un tempo reale per separare la distanza fisica di luoghi tanto diversi. Doveva assuefarsi lentamente. Anche a Parigi andava sempre in treno.
Era chiaro che con la mia conversazione irruente avevo lasciato una buona impressione ed avevamo convenuto che ci saremmo incontrati ancora sia a Roma che in Sicilia. Lui era incuriosito di conoscere Cattolica Eraclea e mi diceva che anche se Racalmuto si trova in provincia di Agrigento lui aveva bazzicato più spesso Caltanissetta piuttosto che Agrigento ove però conosceva il Palazzo della mia famiglia nella Via Atenea.
La mattina dopo nel salutarlo gli dissi.: “Professore, Lei lo sa quanto io sia schivo e quindi a Roma non la cercherò perché non voglio disturbare. Quando crede mi chiami e faremo in modo di incontrarci”.
Le settimane passarono rapidamente ed anche i mesi e di Sciascia non ebbi più notizia. Era stato un viaggio in treno memorabile e tutto poi era finito lì. D’altra parte cosa altro avrei dovuto pretendere? Mi bastava averlo conosciuto ed aver passato una piacevole serata con lui con una conversazione stimolante e ricca di spunti. Ormai ero completamente rassegnato. Invece no.
Bruno Modugno, mio carissimo amico dell’epoca di Porto Ercole, grande navigatore, romanziere di merito e conduttore di programmi televisivi di successo, cui avevo raccontato nei dettagli il mio viaggio in treno con Sciascia, un giorno mi telefonò dicendomi: “Perché non chiami Sciascia? E’ da mesi che aspetta una tua telefonata”. Trasecolai. Modugno mi spiegò che la sera prima ad una riunione di letterati aveva conosciuto Sciascia e poi l’aveva accompagnato in albergo. Lungo la strada gli aveva detto che sapeva che ci eravamo incontrati in treno e Sciascia gli aveva risposto che mi aveva cercato più di una volta, lasciando un messaggio alla signorina straniera che rispondeva al telefono e che io non l’avevo mai richiamato. Pregava Modugno di dirmi che mi aspettava in albergo tutti i pomeriggi dopo le sette.
In effetti, in quel periodo avevamo in casa una giovane ragazza alla pari svedese, Karin, di cui ricordo bene i piccoli seni ben puntuti che con grande indifferenza mostrava a chi passava nella stanza del telefono dove stava seduta a torso nudo, parlando in svedese. Era Karin che non mi aveva comunicato i messaggi.
L’indomani pomeriggio passai dall’Albergo Nazionale in Piazza Montecitorio dove abitava Sciascia. Da allora una o due volte la settimana, tornando a casa mi fermavo a salutare Sciascia che, quando la Camera era aperta, prima di cena intratteneva i suoi amici in un angolo della hall dell’albergo mentre la Signora Maria, la moglie, offriva paste di mandorla di Acireale. Si commentavano i fatti del giorno e a volte si restava in silenzio. I famosi silenzi di Sciascia che riempivano di imbarazzo mia moglie ma che per me erano molto eloquenti. Io stavo bene in silenzio con Lui. Ci guardavamo e quello scambio di sguardi era sufficiente per intenderci. Amavo i suoi silenzi ed i suoi sorrisetti silenziosi ed a mezza bocca.
Nacque così una frequentazione discreta. A Roma all’Albergo Nazionale o a casa mia a Piazza Farnese ove gli facevo trovare pochissimi amici selezionati, ma più spesso in Sicilia. Era venuto a Cattolica Eraclea a visitare il mio archivio e mi aveva molto incoraggiato a mettere in ordine gli epistolari. Ogni anno poi andavo a trovarlo nella sua villetta in campagna, alla Noce dove avevo conosciuto i suoi amici del cuore: il prof. Rizzo (morto prima di lui) ed Aldo Scimè che incontro ancora con grande piacere, quando vado a Racalmuto alla Fondazione Sciascia di cui è Presidente.
A Roma una volta mi è capitato di incontrarlo nella bella casa di Via Garibaldi di un famoso giornalista. Era un ricevimento in terrazza di quelli che usano a Roma all’inizio dell’estate con belle donne abbronzate dalla coscia lunga e ciarlieri uomini di successo. C’era molta gente. Sciascia sembrava sperduto ed appena mi vide si rincuorò molto. Ci andammo a sedere in un angolo appartato e più che conversare avevamo iniziato i nostri silenzi significativi. Ad un certo punto però il padrone di casa mi fece un segno e poi mi disse: “Non puoi monopolizzare Sciascia che è l’ospite più importante della serata, mentre io devo presentargli qualcuno che ha interesse a conoscerlo”. Compresi la situazione ed a malincuore mi diressi in un altro angolo della casa. Sciascia non era adatto a quel tipo di ricevimento. Quando ci salutammo ebbi l’impressione che quella sera si sia sentito tradito ed abbandonato da me. Ma forse è solo un’impressione perché Sciascia era molto curioso e certamente per una volta quel tipo di gente lo avrà divertito.
Nel curare una ponderosa pubblicazione per Sellerio con documenti utili per la storia civile e letteraria della Sicilia, Sciascia volle farmi un omaggio. Inserì una partecipazione di nozze dei primissimi dell’ottocento, con quei tipici svolazzi tipografici dell’epoca, di un mio antenato che portava il mio stesso nome ed annunciava il matrimonio della propria figlia che portava lo stesso nome di mia figlia che da lì a poco si sarebbe sposata e Sciascia lo sapeva bene. Fu un atto gentile che ho molto apprezzato. Poi mi mandò l’originale, che chissà in quale archivio aveva trovato, dicendomi che era bene lo conservassi io.
Quando si ammalò e si seppe che presto sarebbe morto, passai dalla sua casa di Palermo a Villa Sperlinga e gli lasciai un biglietto. Volevo che sapesse quanto era stato importante per me, per la mia vita, per la mia formazione culturale averlo conosciuto bene. Probabilmente quel biglietto sta nel suo epistolario presso la Fondazione e la cosa ferisce ancora il mio pudore. Mi secca aver messo in piazza un mio sentimento così intimo che non ero riuscito ad esprimergli in vita e che gli avevo comunicato soltanto quando non lo avrei più visto. Non so neppure se negli ultimi giorni leggesse la corrispondenza!
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