Le Memorie di Gasparuccio: La Cappelania
Questo nome l’ho dato io. La campagna, appartente in origine a mia nonna Spoto, veniva chiamata con tre diversi nomi: mia nonna la chiamava “Lu cannitu” perché forse c’era un canneto; Peppe Ferraro, ultimo nostro amministratore, la chiamava “Santa Maria” dal nome della montagna confinante dove lui, vecchio tagliapietre, andava a “fare pietra”; i contadini poi la chiamavano comunemente “Sottosaia” dal nome del torrente Saia limitrofo. La cosa era sempre fonte di equivoci e destava confusione. Quando io a metà degli anni cinquanta ho cominciato ad occuparmi degli affari a Cattolica, ho scoperto che il vero nome in catasto era “Cappellania”. Il nome mi era piaciuto molto e per evitare ogni confusione, ho preteso che tutti la chiamassero così. C’è voluto un po’ di tempo ma alla fine tutti sanno dov’è Cappellania.
Molti anni dopo quando avevo già costruito il viale (il primo viale con sostegni precari ad un rampicante di uva) per caso a Roma avevo saputo, attraverso le mie quotidiane telefonate con mia madre, che la ottocentesca cappelletta con pietre ben squadrate che si trovava all’inizio della vecchia stradella che portava alle case Giaccusa, era stata danneggiata dalle manovre di un camion ed era in parte crollata. La notizia era giunta ad Agrigento ma nessuno faceva nulla e presto quelle pietre sarebbero state utilizzate dai passanti. Da Roma telefonai subito a Nino Forte, mio compare, ed a quell’epoca mio muratore di fiducia. Gli dissi di lasciare tutto, recarsi immediatamente alla Giaccusa, smontare quel che restava della cappelletta, numerando le pietre, e ricostruirla identica alla fine del viale di Cappellania. La cosa è stata fatta nel migliore dei modi perché Nino Forte era un muratore di grande valore ed oggi tutti credono che il nome Cappellania derivi dall’esistenza di quella antica cappella.
Ciccu Scalia, di corporatura gigantesca, era il mezzadro di Cappellania. Ogni anno alla vigilia della vendemmia, Ciccu Scalia litigava con la nonna Spoto, la sua padrona. La nonna Spoto gli gridava:” Ora nun lu nesciu lu stigliu, no.” (botti, otri, torchio eccetera) di cui Ciccu era sprovvisto mentre era obbligato a conferire la sua parte di mosto nelle botti della nonna. Ogni anno c’erano questi litigi e noi eravamo abituati a sentire mia nonna che “buttava voci” tutte le volte che veniva questo contadino. Poi una sera Ciccu Scalia non rientrò in paese come faceva d’abitudine. Le sue “fimmini” corsero disperate a Cappellania. Lo trovarono morto in mezzo alla vigna. Era schiattato per un infarto e non era stato tempestivamente soccorso. A Cappellania subentrò, questa volta in affitto, suo genero Peppe Tutino. Vanni Amato, il nostro mitico amministratore, diceva di stare attenti con Peppe Tutino che è un “demagogo”. Ed in effetti divenne vicesindaco comunista di Cattolica. Peppe Tutino fu uno dei primi interlocutori nella mia politica di progressiva “liberazione” delle terre dalla presenza dei contadini che beneficiavano della proroga di legge per i contratti di affitto. Se volevi il possesso della terra dovevi pagare la “buona uscita” che a volte equivaleva anche il 50% del valore della terra.
Tutino dopo lunga trattativa accettò una buona uscita forfettaria e cedette la terra seminativa (circa un ettaro) che noi piantammo subito a vigna (in quel tempo c’era anche Dima che si occupava di agricoltura, prima che intraprendesse a tempo pieno l’attività di costruttore ad Agrigento). Fu la nostra prima esperienza di conduzione agricola diretta con manodopera salariata e con Peppe Ferraro che gestiva. Da notare che si trattava di un solo ettaro di terra a fronte dei circa mille ettari dei vari feudi della famiglia. Era quasi un gioco…e fui subito considerato bizzarro ed eccentrico da tutti i miei zii. Mia madre lasciava fare.
Dopo qualche anno Tutino cedette anche la parte della terra a pistacchieto (altri due ettari circa) ma non cedette mai la casa che diceva gli serviva per ricoverare gli attrezzi agricoli (pare che avesse altra terra nelle vicinanze). Probabilmente voleva una ulteriore buona uscita per cedere la casa. La cosa durò così per qualche anno, fino a quando io non mi stufai ed alla vigilia della raccolta dei pistacchi, andai a Cappellania ed ordinai a Peppe Ferraro di rompere il lucchetto (il catenaccio) della casa e ne presi possesso. Poi gli chiesi di recarsi da Tutino e comunicargli che io avevo forzato la porta per riappropriarmi della casa e così facendo avevo commesso il reato di violazione di domicilio e che lui andasse pure a denunciarmi alla Caserma dei Carabinieri. Tutino non fece niente. L’indomani lo incontrai in piazza e mi venne incontro per stringermi la mano, levandosi il berretto. Da allora in poi è iniziato il mio prestigio di uomo energico e risoluto.
La casa di Cappellania era un vecchio “palmento” dove si pestava l’uva. La restaurammo, l’arredammo ed ogni fine stagione trasportavamo tutti i mobili ed arredi a Cattolica per paura dei ladri. Avevamo decine di case di campagna, avevamo i bagli con caseggiati e magazzini (a San Pietro a Cuci Cuci, a Sant’Agata, a Maurici ed anche a Verdura) ma non avevamo una casetta per noi, riservata solo a noi. Anche a Donna Lisa, campagna amatissima di mia madre, la casa era stata ceduta al contadino e mia madre si era riservata solo una stanzetta. Ricordo una gran puzza appena si entrava! A Cappellania finalmente non c’erano contadini ma soltanto operai salariati. Eravamo finalmente padroni. E questa è stata opera mia. Opera che ha richiesto anni di fatica per il lungo e costante lavorio.
Ma la terra di Cappellania non era come si presenta oggi; nel c’entro c’erano circa due ettari che non ci appartenevano. Appartenevano a Raimondo Borsellino (il chirurgo e deputato al Parlamento) che li aveva comprato da Giovanni Rizzuto (insieme ai terreni che poi vendette al dottore Cammilleri). Ho iniziato una trattativa che è durata forse dieci anni e ci è voluta tutta la mia tenacia per portarla a compimento ed alla fine Raimondo cedette nel 1973. Il notaio Marsala mi disse, ammirato: “E’ la prima volta che Raimondo vende. Raimondo ha sempre comprato e mai venduto. Sei stato bravo a convincerlo”. Raimondo era una degnissima persona ed aveva capito che per me quei due ettari erano importanti anche se io possedevo centinaia di ettari. Così ho creato
In quegli anni c’era l’abitudine che rubavano nelle case di campagna. Rubavano elettrodomestici ma anche biancheria. Quindi noi ogni anno a fine stagione “smontavamo” completamente la casa, trasportando tutto in un magazzino a Cattolica. Era veramente un bel traffico. Smontare e montare per un mese!
A Cappellania ancora non c’era la luce elettrica e noi avevamo un frigorifero a gas. Quando poi portarono l’elettricità, continuammo ancora a non richiedere il contatore perché l’illuminazione con le candele (e l’enorme riserva di “torce” trovate in casa della zia Pia) aveva un fascino particolare. Fino a quando il frigo a gas (il fantastico Electrolux) si ruppe ed allora finì la magia delle candele ed anche noi abbiamo fatto un impianto elettrico.Cappellania nei confini naturali: la strada da tre lati ed il torrente da un lato.
Poi ho fatto la vigna prima a spalliera e poi il primo esempio di tendone di Cattolica facendo venire operai specializzati da altre provincie. Ora mi sto cimentando con il mandorleto.
La casa di Cappellania era riservata ai nostri ospiti con i loro bambini e noi spesso la sera andavamo a cena lì. Lì abbiamo fatto decine di feste con musici che venivano da Ribera e Caltabellotta. E’ stato un’epoca felice. Ne ho un ricordo sereno.
Per molti anni a Cappellania non c’era la luce elettrica (l’elettrificazione rurale in Sicilia è arrivata molto tardi) ed avevamo un frigorifero a gas. In compenso ero riuscito ad ottenere il permesso per “l’appresamento” all’acquedotto comunale che attraversava il nostro terreno. Quindi a Cappellania avevamo sempre l’acqua potabile diretta mentre a Cattolica avevamo l’acqua razionata (qualche ora un giorno si ed uno no!).
Poi ho costruito il capannone, poi ho fatto l’ampliamento con la costruzione delle case nuove ed il “giacato”, il campo sportivo ed il viale di glicine, il posteggio e tutto quello che si vede oggi e desta sempre grande ammirazione in chiunque viene. E stato un miracolo aver creato queste costruzione senza un progetto preciso ma con architettura spontanea (con molte opere abusive). Il risultato è stato molto armonioso. Sono stato davvero molto bravo. Per gli arredi interni invece molto si deve al buon gusto di Fiamma, al disarmo della casa di Porto Ercole ed ai magnifici divani di casa Gordigiani a Piazza Donatello. Tutto si è sempre riciclato. Cosa sarebbe oggi Cappellania senza di noi? Non esisterebbe proprio.
Questo scrivevo nel 2015. Oggi siamo nel 2025. Nel frattempo il mandorleto è diventato una realtà. Avevo ottenuto un finanziamento della spesa al 50% a fondo perduto ed è stato l’ultimo progetto che ho fatto con il Dott. Amato, agronomo che mi ha sempre assistito in questi ultimi anni.
Dopo pochi anni (sei o sette) dall’impianto del mandorleto, ero già riuscito a recuperare tutto quello che avevo speso per realizzarlo attraverso il ricavato del prodotto. Normalmente il “ritorno del capitale investito” avviene in 10 o 15 anni a seconda della buona gestione. Io ci ho messo molto meno anche perché la metà dell’investimento mi è stata rimborsata dallo Stato.
Quando non mi sono più occupato della gestione ed ho passato l’incombenza a Ciccio, il mandorleto di Cappellania era in perfetto utile.
Altra fonte di reddito di Cappellania potrebbe essere l’utilizzo della casa per affitti brevi (casa vacanze) nel periodo in cui non viene utilizzata. Attenzione però. Questo significa distruggerla in pochi anni. Forse una utilizzazione turistica diversa potrebbe essere una buona soluzione. Qualche anno fa Signoretta Alliata mi aveva messo in contatto con una signora di Catania che organizzava gruppi turistici di gente di livello sociale elevato. Facevano fare un giro con piccoli pulman per la Sicilia e nella Sicilia Occidentale tra Agrigento e Selinunte (tappe obbligate) mancava un luogo dove organizzare una colazione all’aperto. Cappellania si sarebbe adattata al meglio. Loro avrebbero pensato ad organizzare il catering. Potrebbe essere un’idea.
Mi son accorto che è meravigliosamente cresciuto un magnifico albero di TEREBINDO che io avevo piantato una ventina di anni fa, quando ancora pensavo di poter salvare il pistacchieto. Il terebindo infatti è il maschio del pistacchio. Questo Terebinto è maestoso e meraviglioso.
Il Terebinto è l’albero della Bibbia quello accanto al pozzo all’ombra del quale Giuseppe, figlio preferito di Isacco stava ad ascoltare Eliezer, il vecchissimo e sapiente servo di Isacco, che gli spiegava quali sono le cose importanti della vita e gli trasmetteva tutti i suoi saperi.
Credo che bisognerebbe valorizzare la vista di questo meraviglioso esemplare di Terebinto trasportando la siepe degli oleandri che chiude lo spiazzo davanti al posteggio, un paio di metri oltre l’albero. Operazione costosa perché bisognerebbe con una ruspa aprire un grande fossato nel quale spostare gli oleandri da sdradicare. In tal modo lo spiazzo risulterebbe molto ingrandito, cosa comoda per quando c’è una festa ed arrivano molte macchine.
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