Cattolica, anni trenta: “Il Circoletto” ed i suoi personaggi
Alla fine degli anni trenta (del secolo scorso) a Cattolica c’era una atmosfera molto serena. Siamo nel periodo più glorioso dell’era fascista che in Sicilia non aveva mostrato le sue nefandezze per l’ascesa al potere. Tanto meno a Cattolica ove il fascismo era semplicemente considerato come un “partito d’ordine”. Non erano ancora state emesse le vergognose leggi raziali e non si parlava di guerra ma di progresso e miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. Erano state bonificate le terre paludose e veniva condotta una seria lotta contro la malaria che precedentemente aveva provocato gran numero di vittime. Erano stati creati borghi rurali (con belle piazze immortalate da De Chirico) ognuno con la chiesetta, la scuola, la casa del fascio, etc. Erano state attuate le leggi sul latifondo e mio padre aveva spezzato il feudo costruendo ben 13 case coloniche con il “corollario” dell’appoderato, cioè la costituzione di un podere di un paio di ettari attorno alla casa colonica, la piantagione di un piccolo uliveto resistente alla mancanza di acqua e la costruzione di una stalla per l’allevamento di almeno due mucche.
Certo, 13 poderi in migliaia di ettari di feudo erano poca cosa e non potevano risolvere gli atavici problemi di sopraffollamento di contadini che seminavano il grano anche in “fazzoletti di terra” che non avevano alcuna vocazione agraria e che non potevano assicurare una possibilità di vita decente. C’era la valvola dell’emigrazione che in quegli anni si riversava in modo robusto verso gli Stati Uniti d’America.
Insomma a Cattolica c’era serenità, sia pure in un quadro di dignitosa povertà ed il fascismo mostrava il suo volto migliore mentre i suoi misfatti sono rimasti sempre sconosciuti alla popolazione anche perché dopo il delitto Matteotti ogni voce di dissenso era stata spenta. I democratici, i riformisti ed i socialisti di Cattolica si erano ritirati in buon ordine, dedicandosi alla loro professione, in attesa di tempi migliori. Mi riferisco ai fratelli La Loggia uno, Salvatore, socialista si dedicò al suo mestiere di Notaio e l’altro, Enrico, cattolico popolare che era stato deputato del Partito di Don Sturzo ed anche Sottosegretario, riprese brillantemente la sua professione di avvocato ad Agrigento.
Ormai la Dittatura voluta da Mussolini era perfettamente operante: le elezioni comunali erano state abolite ed il Sindaco, nominato dal Prefetto, prendeva il nome di Podestà. A Cattolica furono nominati Podestà i personaggi più abbienti e quindi i Borsellino: prima mio zio Giovanni (fratello di mia madre) del ramo del Marchese e poi, quando lo zio Giovanni si trasferì stabilmente a Sciacca ove viveva la sua famiglia, Podestà fu nominato mio padre del ramo della Cavalera. Ovviamente non erano cariche retribuite. Non si faceva politica per mestiere ma per passione o (come nel caso di mio padre) per senso del dovere verso la collettività.
Cattolica era un tipico paese rurale con una stragrande maggioranza di contadini che vivevano accentrati, non esistendo in quell’epoca “case sparse” nelle campagne. Erano paesi-dormitorio, come furono definiti, dove i contadini tornavano la sera per mangiare e per dormire, ripartendo per raggiugere il luogo di lavoro alle prime luci dell’alba. Caratteristiche erano le lunghe fila di muli e di asini che ogni giorno facevano la spola. Pochi gli artigiani ed i commercianti (qualche bettola, un solo fondaco).
Poi c’erano i civili. I Cappelli. Il notaio, il farmacista, il medico condotto, il maresciallo dei carabinieri e quei pochi che riuscivano a vivere di rendita.
La mafia era scomparsa a seguito dell’intervento del Prefetto Mori. (Ricomparirà forte e vigorosa nel 1943 con lo sbarco degli americani. “Calati juncu ca passa la china”, dice il vecchio adagio!).
E poi c’erano gli impiegati del Municipio, della posta, dell’esattoria, della banca, ed i professori o meglio i maestri di scuola elementare perché il ginnasio ancora non esisteva. Per la verità la maggior parte dei maestri erano di genere femminile: la maestra Lumia, moglie dell’agrimensore Bellanca; la maestra Formica, moglie del segretario comunale Castronovo; la maestra Abate, moglie dell’impiegato comunale don Giulio claudicante; la maestra Panittieri moglie di Agostino Alletto e poi Spoto. Come si vede si tratta di qualche decina di persone.
Ed infine c’erano “i ricchi”: Le tre famiglie emergenti Borsellino, Spoto, Rizzuto e loro assimilate (Leo, Tortorici, Dangelo etc).
In questo contesto mia madre ebbe un’idea: creare un piccolo circoletto ove si potessero riunire anche le donne degli esponenti di queste famiglie che per lo più erano tutti parenti tra loro.
Mise a disposizione un locale prospiciente la piazza grande facente parte del palazzo avito (ora affittato alla Caserma dei Carabinieri) che precedentemente era un deposito di prodotti della campagna. Lo fece rintonacare e dipingere rendendolo accogliente e civile con tende e tappeti, lo arredò con comode poltroncine di vimini e consolle nelle pareti, appese al muro allegri quadri da lei stessa dipinti. Non mancavano mai mazzi di fiori nei vasi. Insomma chi entrava nel circoletto restava stupito per la signorilità e il buon gusto che vi regnava. Era possibile anche bere un bicchiere d’acqua o qualche bibita. Ricordo che in un angolo c’era sempre un “bummuliddru di Sciacca”, cioè un contenitore fatto di speciale terra cotta di Sciacca che aveva la proprietà assolutamente strabiliante di mantenere l’acqua fresca. A quell’epoca non esistevano i frigoriferi ed anche in casa avevamo la ghiacciaia con il ghiaccio che veniva da Porto Empedocle.
Poi nominò custode del Circoletto Don Dima, curioso personaggio su cui ho così tanta materia da poter scrivere una puntata.
Don Dima
Discendeva da Giulio uno dei figli del Marchese Gaspare ramo rapidamente caduto in bassa fortuna e successivamente estinto.
Viveva in estrema povertà con le elemosine e la carità di qualche parente. Era sconsigliato dare un piccolo stipendio mensile in denaro perché lo avrebbe consumato rapidamente nelle bettole. Bisognava rifornirlo periodicamente di derrate alimentari. Mia madre propose di offrirgli un pranzo a turno una volta la settimana. Da noi veniva mi sembra il mercoledì e gli si preparava un tavolinetto in un salottino. Ricordo che andavo a vederlo mangiare e mi faceva impressione nel vederlo sempre cosi vorace nel mangiare: era sempre affamato!
Don Dima (comunemente chiamato “Dimi Bestia”) era molto fiero di tenere la chiave del circoletto che la mattina puliva accuratamente e che il pomeriggio apriva per i soci non osando mai sedersi all’interno ma mettendo una sedia davanti la porta in piazza su cui stava perennemente seduto. Era un uomo molto cerimonioso, estremamente cordiale ed allegro con noi bambini. Credo sia morto in un ricovero per vecchi.
Quali erano le bestialità che faceva Don Dimi tanto da essere comunemente chiamato “bestia”? Eccone alcune:
– In archivio ho trovato un telegramma dal significato quanto mai ermetico, inviato da “Don Dimi la bestia” a mio padre a Palermo, così concepito: ”Porta abbutata; Giacca rubata; Malfattore fuggito; Sentenza nulla”. Dalle indagini da me fatte sul significato di questo enigmatico telegramma è risultato che mio padre per fare guadagnare un po’ di denaro a Don Dimi gli dava piccoli incarichi, uno dei quali consisteva nell’andare a “fare la guardia”, cioè sorvegliare che non avvenissero grandi ruberie, nella divisione dei prodotti della terra con qualche piccolo mezzadro. (Per le cose importanti c’era il campiere). In una di queste occasioni pare che a Don Dimi fu rubata la giacca (ma forse fu uno scherzo per farlo infuriare; perché quando si infuriava, bestemmiava in modo talmente colorito da suscitare gran divertimento). Don Dimi quindi si recò dai carabinieri per sporgere denuncia e subito dopo fece questo sibillino telegramma a mio padre con il quale voleva dire che aveva trovato la porta socchiusa (abbutata), che gli era stata rubata la giacca da un ladro che era fuggito e che aveva fatto la denuncia ma non era stato ancora trovato il colpevole (sentenza nulla).
– Don Dima aveva scoperto che forse avrebbe potuto rivendicare certi terreni che in passato erano stati della sua famiglia e che gli erano stati usurpati. Aveva scoperto altresì che esisteva il “gratuito patrocinio” per la difesa giudiziaria di chi non ha mezzi. Un giorno quindi partì per Agrigento ed appena arrivato alla stazione cominciò a chiedere alla gente dove si trovasse il gratuito patrocinio. Stette tutto il giorno in giro per la città ma non riuscì a trovare il “gratuito patrocinio”. Tornato in paese continuava a raccontare questa sua avventura, provocando grande ilarità fra i conoscenti.
– I tecnici del catasto erano venuti in paese per un censimento di terreni e Don Dima si offrì di fare loro da guida. Partirono a cavallo e Don Dima indicava come se fossero di sua proprietà i terreni che sapeva essere comunali o demaniali. La conclusione fu che l’anno seguente gli arrivarono enormi cartelle di tasse da pagare.
Insomma il povero Don Dimi era proprio una bestia e credo che in ogni paese ci sia sempre qualcuno che viene affettuosamente indicato come la “macchietta” del villaggio; che viene preso in giro bonariamente quando si ha voglia di farsi quattro risate. Così al circolo dei civili, quando passava Don Dimi qualcuno lo chiamava e gli chiedeva: “don Dimi, perché siete stato riformato alla leva militare?” e lui immancabilmente rispondeva tutto serio “per una grave malattia che si chiama idiòzia” mettendo l’accento sulla o. E tutti giù a ridere. Era l’inizio di una conversazione che si concludeva immancabilmente tra grandi risate.
I frequentatori del circoletto erano oltre a mio padre e mia madre, anche i miei tre zii descritti nelle puntate precedenti e poi c’era Giov. Rizzuto, Ciccetto e Brillantino e le loro mogli; non mi sembra fossero ammessi altri. Ovviamente se venivano anche i ragazzi Spoto (Peppino e Giovanni) nessuno li avrebbe cacciato. Ma non venivano perché erano di un’altra generazione.
Giov. Rizzuto
Non aveva titolo nobiliare ma aveva un’allure, un comportamento ed uno status da vero Barone e Barone lo nominò mio padre. La popolazione di Cattolica senza alcuna difficoltà accettò questa nomina e fu sempre chiamato Barone. Come pure Barone fu sempre chiamato il figlio Enzo e Baronessa la nuora Maria Luisa Guccione.
Era cugino in primo grado di mia madre (la madre Annetta, italianizzato da Annicchiddra, sorella di mio nonno Dima). Era anche cugino in secondo grado di mio padre e soprattutto era il suo migliore amico, anche se aveva 10 anni più di lui.
Giov. Rizzuto, così si firmava, era universalmente riconosciuto per la sua eccentricità. Anticonformista ed estroso, il suo comportamento bizzarro e stravagante suscitava sempre grande empatia. Unico discendente della stirpe Rizzuto aveva concentrato sulla sua persona tutte le ricchezze della famiglia. Inoltre aveva sposato l’ultima ed unica erede di una famiglia che nell’Ottocento si era molto arricchita attraverso un’oculata gestione dell’agricoltura e dell’usura: I Leo ed i Pacino.
Giov. Rizzuto quindi aveva una grande ricchezza che sistematicamente aveva sperperato, lasciando all’unico figlio maschio (Enzo) solo le terre di Piconello che dopo alterne vicende il nipote (l’indimenticabile Ruggero) aveva molto valorizzate fino a che, diciamo per un “rovescio di fortuna”, furono vendute anch’esse. Chiuso. Finito. I Rizzuto si sono estinti e nella storia di Cattolica resterà solo Giov. Rizzuto come personaggio centrale anche se l’altro nipote Giovanni, apprezzato giornalista, per un certo periodo ha avuto un ruolo importante nella Palermo di fine Novecento. Ma con Cattolica non c’entra niente. Non è stato un personaggio di Cattolica.
Quindi ogni anno Giov. Rizzuto vendeva un cespite ed all’inizio della stagione ci si chiedeva: “cosa vende quest’anno Giov. Rizzuto?”
Soltanto una volta ed a malincuore mia madre comprò da lui. Si trattava di una campagnuccia, chiamata Donna Lisa, vicino al paese con una casa con due belle palme accanto che le ricordava la sua adolescenza e le merende che vi faceva dopo una lunga cavalcata. Mia madre infatti era una amazzone appassionata.
Rimpiango sempre che mia madre non abbia voluto comprare dal cugino, che gentilmente sempre gli passava la preferenza, un pezzo di terra confinante con Cappellania. Quella campagna fu venduta al medico del paese che ora è mio confinante e mi crea problemi per quel che riguarda la stradella di accesso. Ma mia madre non voleva mai comprare dal cugino. Gli sembrava immorale vivere in questo modo e sempre cercava di dissuaderlo.
Questo cugino era molto spiritoso e pieno di senso dell’umorismo. Una volta qualcuno gli chiese: ”scusi Barone, ma lei vive di rendita?” e lui si affrettò a rispondere: “No, no, di capitale, di capitale”.
Certo, io ero ancora piccolo quando è morto, ma lo ricordo bene: era gentile, molto compito ed impeccabile nel vestire e nel comportamento. Buono e generoso ma un pò materialista e gaudente. Aveva una particolare concezione della vita, direi quasi da epicureo, per cui era sempre alla ricerca delle cose piacevoli. Evitava accuratamente le seccature e come dicevano tutti “si la vuliva passari bona”. E c’è riuscito a passarsela bene, perché quando è morto non aveva ancora finito di dar fondo ai suoi beni. Ci hanno pensato poi i suoi eredi!
Giov. Rizzuto aveva comprato a Palermo una bella casa in Via Principe di Belmonte in cui viveva e tutte le estati tornava a Cattolica ove aveva un bel palazzetto con enorme terrazza panoramica con la vista sul mare. Accanto alla casa c’era un grande giardino che aveva preso tutte le sue cure e si chiamava “La Sirba”. Era riuscito a far convogliare in quel giardino tutte le acque che scolavano dagli abbeveratoi comunali che a loro volta erano alimentati da diverse sorgive. Cosi quel giardino aveva acqua a volontà ed io ricordo bene le varie condotte che costeggiavano i vialetti e poi le chiuse e le gebbie che venivano riempite e poi vuotate per l’irrigazione. Era un giardino pieno di odori e profumi provocati dalle piante sempre fiorite che Giov. Rizzuto era riuscito a impiantare.
Giov. Rizzuto da giovane era molto legato a suo zio Dima (mio nonno) ed io conservo una loro nutrita corrispondenza. Aveva creato un giornaletto a Cattolica (Vita Nova) e si divertiva a scrivere i fatti locali che poi commentava nelle lettere con lo zio.
Da adulto invece era diventato il migliore amico di mio padre. A Palermo si vedevano tutti i giorni, dandosi appuntamento sempre alla stessa ora (alle cinque del pomeriggio) dal fioraio Catalano in piazza Castelnuovo. Mandavano un mazzo di fiori alle mogli rimaste a casa e poi andavano a sedersi al bar Caflish in Via Ruggero Settimo. Questa era la routine.
Avevano gli stessi gusti e compravano le stesse cose. Ambedue avevano comprato lo stesso modello di automobile (Lancia Agusta) ed avevano comprato gli stessi mobili per la sala da pranzo. Leggevano gli stessi libri (romanzi di Kormendi o quelli più osè di Pitigrilli e Guido da Verona). Giov. Rizzuto comprava due copie di ogni libro perché gli piaceva che la moglie leggesse ad alta voce mentre lui sdraiato sulla dormouse seguiva con gli occhi nell’altro testo.
Giov. Rizzuto oltre ad Enzo aveva anche tre figlie due delle quali (Anna e Caterina) si erano sposate molto bene mentre la terza (Letizia) era una fine musicista: si è trasferita a Ginevra facendo la pianista e di questo ha vissuto tutta la vita.
Io lo ricordo bene quando veniva a sedersi al circoletto. Non era vestito come tutti gli altri con giacca sopra la camicia ma aveva una specie di uniforme da lui stesso disegnata che somigliava molto alla divisa che molti anni dopo ho visto indossare solo da Mao Tse Chung, il dittatore cinese.
Ciccetto
Era l’ultimo Barone Spoto. Era cugino in primo grado di mio padre e suo coetaneo e compagno di collegio a Palermo. Era di statura molto bassa (quasi nano) perché aveva preso i geni della nonna Francesca Vaccaro di San Biagio Platani che oltretutto era anche la mia bisnonna! (Sambrasisa, curta, niura e malu cavata).
Aveva sposato una cugina in primo grado, la zia Francesca, bella donna alta e molto cordiale sempre ridanciana ed accogliente. Grande amica di mia madre. Con entusiasmo aveva partecipato alla creazione del Circoletto.
Avevano due figli (Giacomo e Giovanna). Giacomo si era sposato con una discendente del barone Agnello di Siculiana ma il matrimonio è durato poco tempo e Giacomo è scomparso tra le nebbie a Milano dove pare si sia formata una altra famiglia. Dopo tanti anni, ho ritrovato un suo figlio (Spoto-Agnello) che vive a Palermo e soffre molto del fatto che le sue radici con Cattolica siano state tagliate anche se ancora ha una parte del Palazzo di famiglia. E’ il vero ed ultimo Barone Spoto. Peccato che a Cattolica non lo conosca nessuno.
Ciccetto era un misantropo. Aveva poche amicizie e detestava i Cattolicesi. Si era trasferito a Palermo ma viveva in casa d’affitto.
Aveva un bel Palazzo nella Piazza Grande di Cattolica. Aveva una bella Villa alle porte del paese (Dietromercè). Aveva buona parte del Feudo di famiglia da cui prendeva il titolo nobiliare (Il Salacio). Aveva anche terre in varie contrade vicino a Cattolica. Certo, non esisteva più la legge del maggiorasco e suo padre ha dovuto dividere il patrimonio paterno con altri otto fratelli. In tal modo la ricchezza si è diluita. Ma Ciccetto è stato insipiente e non è riuscito a fermare il declino della famiglia. Non ha capito che i tempi cambiavano. Era sempre più solo e sembra che ai suoi funerali siano andati solo tre persone….
Brillantino
Così chiamato perché si diceva che fosse talmente intelligente da avere un brillante nella testa al posto del cervello. Ma non era poi così intelligente. Certo rispetto a Cicceto era un gigante. Era un po’ filosofo e grande “ragionatore”. Con me ragazzino si degnava di giocare a scacchi, gioco che io avevo imparato in collegio e che periodicamente nella mia vita ho sempre coltivato, insegnandolo anche ai miei nipoti.
In realtà il suo nome era Vincenzo D’Angelo ed era cugino in primo grado di mia madre. Rimasto orfano in tenera età sia di padre che di madre, fu accolto in casa di mio nonno che lo allevò come un figlio. Era coetaneo di mia madre.
Brillantino fu fonte di grande afflizione per mio nonno. Ho molte sue lettere a mio nonno. Lettere dal collegio e da Palermo dove studiava all’Università. Chiedeva continuamente soldi, facendo pesare che si trattava di soldi propri, provenienti dal proprio patrimonio che mio nonno, essendo tutore, amministrava. Una volta Brillantino scappò dal collegio e scomparve per alcuni giorni, creando grande apprensione in tutto il parentado. Un’altra volta, in combutta con alcuni amici della sua risma, “si fece sequestrare” chiedendo un riscatto che fu pagato ma che mise in moto la polizia e mio nonno dovette sudare sette camicie per mettere a tacere la questione. Insomma era veramente uno “scavezzacollo”, un ragazzo scapestrato e mio nonno fu veramente felice quando raggiunse la maggiore età.
Brillantino si sposò prestissimo e fu un ottimo marito e padre. Io l’ho conosciuto bene e lo ricordo come una persona sensata e di carattere mite. In archivio ci sono ancora i registri con la contabilità e l’amministrazione dei suoi beni che mio nonno teneva puntigliosamente in ordine. Ma credo che non ci fosse bisogno di mostrarli a nessuno perché nessuno, neppure Brillantino poteva dubitare della sua correttezza.
Brillantino non era ricco. Diciamo benestante. Ma divenne improvvisamente molto ricco perché un cugino di suo padre lo lasciò erede universale di tutti i suoi beni. Portava il suo stesso nome ed era il giovane marito della zia Mimì. Ebbe un unico figlio che avviò alla professione di notaio ad Agrigento.
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