Francesco Bonanno del Bosco principe di Cattolica e di Roccafiorita
Nacque a Palermo intorno al 1680 da Filippo, principe di Roccafiorita, e Rosa del Bosco Sandoval, sua prima moglie. Poco sappiamo della sua giovinezza: le prime notizie di un certo rilievo sono del 1706 quando, eletto deputato del Regno, appare già attivamente inserito nella vita politica isolana. Il 1º settembre dello stesso anno prese possesso dell’ufficio di capitano di Giustizia di Palermo e il 17 sett. 1707, per la morte del padre, ricevette l’investitura del principato di Roccafiorita. Nel 1708 il C. fu nominato vicario generale per provvedere al rifornimento di grano per la capitale del Regno e per tutta l’isola e con privilegio del 19 sett. 1708 (esecutoriato a Palermo il 25 sett. 1709) gli venne concesso il titolo di grande di Spagna. Devoto al sovrano, nel 1710 soccorse l’erario dello Stato, esausto per le spese imposte dalla guerra di successione, con un donativo di 24.000 fiorini.
L’attaccamento alla Corona di Spagna è confermato da un altro episodio. Il 12 apr. 1713, dopo i preliminari di pace intercorsi tra Spagna, Francia e Inghilterra, due navi inglesi gettavano l’ancora nel porto di Palermo e vi si trattenevano nove giorni. In questo periodo il comandante delle unità avvicinava alcuni esponenti della nobiltà palermitana, tra cui il C. e suo zio Giuseppe del Bosco Sandoval, principe di Cattolica. Il C., scrivendo dell’incontro al viceré in Messina, riferiva che l’ufficiale aveva assicurato che il Regno di Sicilia sarebbe stato ceduto al duca di Savoia e aveva invitato lui e il principe di Cattolica a scrivere al duca stesso per congratularsi della decisione delle potenze e a sollecitare dagli altri nobili analoghe manifestazioni di letizia. Il viceré, nell’informare della cosa Madrid, precisava che i due nobili avevano dichiarato all’ufficiale che essi non riconoscevano altro signore che il re di Spagna, ma nello stesso tempo manifestavano la loro rassegnazione alle disposizioni reali quando il viceré le avesse comunicate in nome del sovrano.
Quando la diplomazia europea rese nota la cessione dell’isola a Vittorio Amedeo II di Savoia, la Deputazione del Regno inviò come suo ambasciatore presso il nuovo sovrano il C., che lasciò Palermo il 10 sett. 1711, con un folto gruppo di nobili.
Appena giunto a Torino venne ricevuto da Vittorio Amedeo in udienza privata; quindi, il 30 settembre successivo, a Nizza, in una udienza ufficiale pronunciò un discorso nel quale espresse la gioia delle popolazioni del Regno per il sovrano loro assegnato e la speranza che sotto il suo saggio governo si potesse conoscere nuova prosperità. Indi egli consegnava al re il messaggio di saluto della Deputazione.
Il 23 marzo 1714 Vittorio Amedeo lo nominò gentiluomo di camera, ma non risulta che il C. durante la dominazione sabauda abbia preso parte in qualche modo alla vita pubblica. Allo stato della documentazione non si può dire se questo sia stato il risultato di una scelta operata dal nobile siciliano o piuttosto la conseguenza delle direttive date al governo dell’isola da Vittorio Amedeo; è certo però che quando l’Alberoni attuò la spedizione per la riconquista della Sicilia il C., come altri nobili siciliani, inviò un messaggio a Filippo V (il 22 luglio 1718), per esprimere letizia per l’iniziativa presa dall’armata spagnola e manifestargli sentimenti di fedeltà e attaccamento. Né per questo lo possiamo tacciare d’incoerenza, perché probabilmente questa manifestazione di devozione alla Corona spagnola, dopo i sentimenti espressi a Vittorio Amedeo, è il risultato della delusione che il governo sabaudo aveva generato nella nobiltà isolana che nel regime amministrativo instaurato dal principe subalpino aveva trovato un limite notevole alla propria autonomia o, quanto meno, alla maggiore autonomia che sperava di conquistare. Ad ogni modo le speranze d’un ritorno dell’isola alla Spagna dovevano restare inappagate perché poco dopo, con la pace dell’Aia, la corona di Sicilia era assegnata all’imperatore Carlo VI.
Nel 1720 il C. fu di nuovo eletto deputato del Regno e il 12 maggio 1721, dopo una lunga lite giudiziaria conclusasi a suo favore, ricevette l’investitura del principato di Cattolica, succedendo nel titolo e nel possesso dei beni allo zio materno Giuseppe, morto senza eredi diretti, e accrescendo così notevolmente la propria posizione economica e politica.
Nel settembre dello stesso anno il C. venne nominato pretore di Palermo e poco dopo – nell’ottobre – dovette affrontare una dura polemica col viceré duca di Monteleone per non aver voluto confermare nell’ufficio alcuni impiegati dipendenti dal Senato e protetti dal viceré. Il 20 novembre successivo il Senato si rifiutò di pagare al viceré un credito di 2.817 onze e il C., che come pretore sedeva a capo del Senato, giustificò il provvedimento affermando che la situazione deficitaria delle scorte di frumento della città imponeva di tenere ogni risorsa pecuniaria pronta a sopperire ai bisogni di una temuta carestia. I due episodi determinarono tra il C. e il viceré un forte attrito che dopo poco tempo degenerò in rottura completa. La occasione venne offerta al viceré dal fatto che per la ricorrenza del Natale il pretore e i senatori non si erano recati a rendergli l’omaggio augurale di rito, data la impossibilità di risolvere una questione di cerimoniale provocata dallo stesso duca di Monteleone.
Probabilmente il viceré aspettava proprio questo per colpire duramente un uomo che aveva ostentato notevole autonomia nella tutela degli interessi e dei privilegi della città che amministrava e dell’ufficio che occupava. E infatti ingiunse al C. di tenersi agli arresti domiciliari, destituì tre dei senatori, sostituendoli con uomini di sua fiducia, e inviò una minuta relazione al sovrano, nella quale l’accaduto era presentato come offesa alla dignità reale.
Da parte sua il C. inviò alla corte di Carlo VI il padre teatino Giuseppe Bonanno, suo zio, perché esponesse i fatti e presentasse le lagnanze del Senato, facendosi anche portavoce del malcontento della nobiltà e della popolazione. Nell’esposto del Senato di Palermo all’imperatore non solo si accusava il duca di Monteleone di non rispettare i privilegi e di imporre sfacciatamente negli uffici i suoi protetti, ma anche di dilapidare il denaro pubblico, sottraendo se stesso e i suoi familiari all’obbligo di pagare le gabelle, e questo nonostante ricevesse un’indennità che doveva proprio compensarlo di tale onere. Il p. Bonanno espletò con impegno la sua missione, appoggiandosi a quegli ambienti di corte – specialmente quello militare – che erano decisamente ostili al duca di Monteleone e l’episodio si concluse con piena soddisfazione per il Cattolica. Infatti Carlo VI, con dispaccio del 2 apr. 1722, ordinò al viceré di porre in libertà il pretore e di reintegrare nelle loro funzioni i tre senatori destituiti e poco dopo, con altro dispaccio (del 9 maggio), lo richiamò in patria, sostituendolo con fra’ Gioacchino Fernandez Portocarrero, conte di Palma e marchese di Almenara, che giunse a Palermo il 1º luglio successivo. Sulla decisione dell’imperatore dovette influire certamente la percezione che il viceré, per ragioni frivole e per la ricerca troppo sfacciata di un vantaggio personale, aveva finito con alienargli la simpatia del popolo e soprattutto di buona parte della nobiltà siciliana, in cui il C. occupava posizione preminente.
L’anno successivo il sovrano austriaco, per dimostrare la sua stima alla città di Palermo, ma – in verità – per impinguare le casse dello Stato, concesse al Senato palermitano la dignità di grande di Spagna. Questo provvedimento assicurava all’erario imperiale un notevole introito, perché il Senato, per ottenere il dispaccio ufficiale di concessione, avrebbe dovuto sborsare una forte somma; ma in quel momento esso non ne aveva la disponibilità e i banchieri interpellati pretendevano interessi troppo alti. Certamente la suprema magistratura palermitana avrebbe dovuto rinunciare all’ambito titolo se il C., confermato pretore per un altro anno, intervenendo con un atto di liberalità, non avesse donato alle casse cittadine il denaro necessario.
Il 15 marzo 1727 il C. venne nominato dal viceré, vicario generale con il mandato specifico di riportare la pace nelle contrade di Sicilia tormentate dai banditi e di sgominare la banda dello Sferlazzo che tra tutte si era rivelata la più agguerrita e la più feroce.
Egli armò rapidamente un grosso reparto di soldati, traendo la maggior parte degli uomini dalle sue terre e il 3 aprile raggiunse Canicattì, nell’interno dell’isola, per attaccare la temuta banda. La zona d’azione di questa includeva parte dei feudi del C.; pertanto a questo fu possibile sfruttare suoi informatori personali per localizzare il rifugio dello Sferlazzo. Il C., dopo avere arrestato tutti coloro che erano sospettati di essere in rapporto con la banda, isolandola così completamente, ne attaccò il nascondiglio e ne catturò il capo, dopo averlo ferito, e diversi accoliti. Il bandito venne impiccato con sette dei suoi compagni, mentre altri appartenenti alla banda furono condannati al carcere o all’esilio. Il 26 novembre successivo il sovrano inviò al C. un dispaccio di plauso per la decisione e la rapidità con cui aveva condotto l’azione.
Il 3 maggio 1732 il C. ricevette un’altra onorificenza imperiale, il Toson d’oro e nel maggio dell’anno successivo fu eletto, per la terza volta, pretore di Palermo. Mentre egli assumeva l’alto incarico si sentivano in Europa i primi contraccolpi della guerra di successione polacca, che metteva in pericolo i possedimenti imperiali in Italia e specialmente quelli che, come i regni di Napoli e di Sicilia, erano più esposti agli attacchi della flotta spagnola. Proprio per prepararsi ad affrontare ogni eventualità all’inizio del 1734 il vicere conte di Sastago, avuta notizia della vittoria di don Carlo di Borbone nel Napoletano, decise di ritirarsi a Siracusa.
Poco prima di lasciare Palermo egli, per rimpinguare le esauste casse dell’erario imperiale, imponeva alla Deputazione delle nuove gabelle di versargli le somme che nel successivo agosto avrebbero dovuto pagare gli ecclesiastici del Regno per i donativi per cui avevano rinunciato al privilegio che li esentava da tale pagamento. La richiesta poneva i deputati di fronte a un grosso problema: infatti il pontefice aveva acconsentito a che il clero di Sicilia rinunciasse al detto privilegio, ma in effetti, a parte il clero della diocesi di Palermo, gli altri ecclesiastici non si erano mostrati propensi a rinunciare all’esenzione. Pertanto, l’aderire alle pretese del viceré comportava il rischio di non potere recuperare le somme versate. Di questo pericolo si rese conto il C., che era capo della Deputazione, e cercò di opporsi alla richiesta. Egli dapprima espresse il parere che si dovesse sentire l’avvocato fiscale della Gran Corte e nello stesso tempo premeva sul magistrato perché convincesse il viceré a recedere dalla sua richiesta, non essendo nel potere discrezionale della Deputazione distogliere una tale somma. Alla fine raggiunse il suo intento e la Deputazione evitò di sborsare denaro, che certamente non sarebbe riuscita a recuperare.
Il C. riuscì ancora una volta ad evitare altra iattura alla sua città alla fine di agosto, quando una poderosa flotta spagnola approdò a Solunto sbarcando numerose truppe. Il 30 agosto il C. inviò due ambasciatori al conte di Montemar, comandante delle forze spagnole, per esprimere l’omaggio del Senato e per comunicare che la città era pronta a riceverlo. Il 2 settembre il Montemar, entrato a Palermo, assunse il titolo di viceré in nome del re Carlo. Indi diede ordini alle truppe perché, piazzate convenientemente le artiglierie, si espugnasse nel più breve tempo il castello. Seguendo con occhio attento la disposizione data alle artiglierie dagli Spagnoli il C. si rese conto che, se dall’interno del castello si fosse aperto il fuoco con i cannoni per attuare un tiro di controbatteria, una parte della città avrebbe corso il pericolo d’essere distrutta. Per evitare questo egli intervenne con insistenza presso il viceré e ottenne che le batterie piazzate entro i quartieri cittadini, o a ridosso di essi, venissero spostate. Così l’attacco al castello non procurò alla città né danni né vittime.
Successivamente il C. espresse i suoi sentimenti di devozione a re Carlo inviando due ambasciatori a Napoli e nei primi dell’anno successivo indirizzò messaggi anche ai sovrani di Spagna, esponendo in un lungo memoriale le benemerenze acquistate dalla sua famiglia al servizio dei re di Spagna. Il 18 maggio 1735 giunse nel porto di Palermo re Carlo, il quale fece l’ingresso ufficiale nella città il 30 giugno con una cerimonia sfarzosa che si concluse il 3 luglio in cattedrale con la solenne incoronazione. In questi giorni il succedersi delle cerimonie e lo sfarzo degli addobbi confermarono le capacità organizzative del pretore, tanto che il sovrano in riconoscimento di questi meriti lo nominò gentiluomo di esercizio del suo seguito.
Il C. si ritirò quindi dalla vita pubblica, e il 25 dic. 1739 morì nel suo palazzo di Palermo. Il suo corpo venne seppellito nella chiesa dei crociferi.
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