Nel mondo sempre più digitale e connesso di oggi, è facile dimenticare i giorni in cui i giochi non erano schermi tattili e console potenti, ma piuttosto esperienze fisiche e sociali. Parliamo dei giochi di una volta, quei passatempi semplici che hanno intrattenuto generazioni intere senza bisogno di elettronica sofisticata. In questo articolo, ci immergeremo nel fascino del gioco della “baddra”.
Abbiamo estratto questo post dal libro “Sotto la polvere del tempo”, della professoressa Angela Zambito, che riteniamo essere uno scrigno prezioso che custodisce un pezzo della nostra storia. Vi invitiamo a leggerlo (è disponibile presso l’edicola Gentile ) per scoprire le bellezze del nostro passato.
I GIOCHI DI UNA VOLTA. A la baddra
- A la baddra era un gioco che prendeva il nome dall’oggetto usato cioè la baddra (trottola) di legno resistente, di solito di faggio, munita di un pizzu d’azzaru, consistente in un chiodo robusto e appuntito nelle estremità, che si conficcava al centro della trottola e sporgeva fuori di tre o quattro centimetri. L’innesto del pizzu necessitava di cure particolari per la buona riuscita dell’impresa. I ragazzi si recavano dal fabbro per fare praticare al pizzu la cosiddetta azzariatura (veniva arroventato e battuto sopra l’incudine) e, quindi, inserito nel buco della trottola, dopo avervi infilato delle muschiddri (mosche morte ed essiccate). A seconda della riuscita, la baddra era considerata appizza e resta se girava senza saltellare, tirichitanchi se invece andava saltellando, oppure finula o muschiddra se girava silenziosamente e velocemente. I diversi modi di comportamento della trottola servivano, a volte, ad indicare il carattere o il comportamento più o meno deciso delle persone (appizza e resta = uomo fermo e deciso; tirichitanchi = volubile e poco affidabile; finula = elegante e piacevole). Le trottole, quando riuscivano tirichitanchi, venivano ammastrate, limando e risistemando per bene ‘u pizzu. I partecipanti al gioco avvolgevano intorno al chiodo e alla trottolina la lazzata (un filo di spago chiamato rumaneddru) e, quindi, la lanciavano verso terra, tenendo tra le dita l’estremità della lazzata, la cui parte finale era munita di un gruppu (nodo). La trottolina raggiungeva il suolo e si metteva a girare più o meno velocemente a seconda se era lanciata a la ‘n sutta (in maniera leggera per non provocare danni) oppure a la ‘n capu (con più forza e per scalfire le altre trottole). Si tracciava un cerchio sul terreno di gioco (di solito era in terra battuta), all’interno del quale, dopo aver fatto la conta, il giocatore perdente poneva la propria trottola, che gli altri giocatori, uno per volta, dovevano colpire con la propria. Se il partecipante al gioco non la colpiva, doveva prendere in mano la propria trottola mentre girava, oppure avvicinarla con lo spago teso fra le mani e far toccare le due baddre. Il primo dei giocatori che non riusciva in questa operazione, prendeva il posto del compagno, che così, con un sospiro di sollievo, poteva liberare la propria trottola ed iniziare a colpire, tentando di spaccare o scheggiare (scardari) quella degli altri. Oltre alle trottoline venivano usate anche quelle più grandi: li baddruna e, quando si colpiva con essi, per i malcapitati erano dolori, perché spesso la baddra colpita andava in pezzi.
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